La attribuisco al grande attore romano Gigi Proietti perché è da lui che l’ho sentita: “Un uomo che cade offre la possibilità di tendergli la mano”.
Non solo trovo che questa frase sia stupenda, ma la ritengo anche esatta.
Si fa un bel parlare, ai nostri giorni, di karma, questo per noi relativamente moderno termine che è andato a sostituire il più obsoleto e demodè di destino.
Però forse questa parola sanscrita che tanto moderna sicuramente non è, va ad aggiungere qualcosa a quel destino, che per quanto nelle mani del proprio possessore, è comunque tanto o troppo avvolto di un inafferrabile manto di casualità, per poterci essere fino in fondo comprensibile, e per questo, amico.
Ciò che si comprende, finisce per diventare amico, familiare.
L’utilizzo dello strumento ce lo rende familiare, e in questo il destino, fallisce, anzi, nella sua intrinseca imperscrutabilità, finisce che lo si teme. Il termine karma invece no. Il termine karma aggiunge, perché se oltre a contenere in sé tutte le connotazioni casuali e arcane del suo diretto omologo italiano, racchiude pure quel newtoniano principio di causa-effetto che l’occidente è riuscito a esprimere soltanto attraverso la scienza, e quindi per mezzo di una raffigurazione espressa con concetti primariamente scientifici: “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Così si esprime la terza legge della dinamica, e così è l’occidente.
Dove l’Oriente, l’Ariete, arriva con lo Spirito, con il Fuoco, l’Occidente, la Bilancia, arriva con il calcolo, con il pensiero, con l’Aria, con il metodo scientifico.
Vabbè che ormai è più che appurato che il grande fisico e matematico inglese fosse prima di tutto un alchimista, ma il concetto di causa-effetto fa il suo ingresso trionfante in occidente per mezzo di una computabilità, appunto, tutta matematica. Come, che il karma é matematica?!
Chi mi conosce sa quanto io sia restio, nonostante la conoscenza di diverse lingue tra le quali l’inglese, ad utilizzare nel mio discorso dei termini stranieri, laddove per varie ragioni non me ne veda costretto. Amo troppo la mia bellissima lingua, ciò nonostante in essa, una parola corrispondente al termine sanscrito karma, non esiste o comunque io non la conosco. Nemmeno il termine metempsicosi soddisfa pienamente tutti i requisiti, intendendosi con questo termine il processo ciclico della reincarnazione, enunciandola in una imprecisa circolarità di esperienze di vite nel loro susseguirsi caotico e magmatico, finendo per assimilarsi ed omologarsi a quell’altra indefinibile parola: Fato.
«Correvi con la biga nei circhi e fosti pure un’ape delicata. Il gentile mantello che coprì le spalle di qualcuno», scriveva con struggente poesia Manlio Sgalambro per il miglior Battiato di Gommalacca.
Forse ho trovato: metempsicosi, e quindi reincarnazione, è il percorso, mentre karma è l’intenzione di percorrerlo.
Ecco che invece quel termine indiano ormai entrato nel linguaggio globale e che ha finito per imporsi ed appartenere al lessico dei figli dei fiori e della loro famigeratissima New Age, proprio perché colma diverse lacune, porta ed eleva i concetti della newtoniana terza legge della dinamica sull’asse verticale dello spirito. Quell’azione uguale e contraria, oltre ad agire orizzontalmente sulla materia, si pone appunto uguale e contraria sul braccio verticale della croce, simbolizzata per l’astrologo dall’asse Capricorno Cancro.
Quindi, questo concetto aggiunge un fattore di responsabilità, ecco che implicitamente contiene in sé e nemmeno troppo in embrione, il principio di azione cosciente, di partecipazione attiva al proprio destino, perché se io sono il risultato delle mie azioni, o per essere più esatti, se la memoria coscienziale di una delle mie componenti spirituali (e non vado oltre) è il risultato di una convergenza di azioni e reazioni appunto coscienziali, ecco che io divento, che lo voglia o no e che lo sappia o no, il pilota del mio stesso fato. Da adesso, non posso più permettermi d’affermare, facendo spallucce, che è tutta colpa del fato, probabilmente avverso, come se io non c’entrassi più niente con la fatalità degli avvenimenti. Ora, nel mio soffrire, nel mio arrancare claudicante per le salite della vita, nel mio affrontare l’esistenza a pugni nudi (bare knuckles), divento determinante, prendo parte, alfine, a quel grande gioco cosmico che in quanto intelligenza, e pure divina perché verticale, altro non pretende che coinvolgermi strappandomi alla passività (o fatalità) per rendermi in ultimo partecipe. Per questo chi già soltanto sa di essere karma, ha cominciato a partecipare, a giocare con Dio. Ad esserlo. Esercitare il karma è il senso della Magia, che consiste nell’intervenire sulla materia e sui suoi potenziali accadimenti.
Ora, sebbene io riconosca i diversi livelli di coscienza e quindi le diverse coscienze che settenariamente (e rimando a Steiner e meglio ancora, a quelli prima di lui) strutturano, conformano e pervadono il nostro sentire animico, ho del male ad immaginare che ciò che io sento di essere e che definisco attraverso un tremendo (e velenoso) pronome personale: IO, debba godere del privilegio di morire e di rinascere pressoché infinitamente ed instancabilmente, perché… quale fatica! in un susseguirsi di stati che comunque cangiando, continuano sempre a riferirsi a loro stessi con quel termine del quale non riusciamo proprio a fare a meno:Io, trascinando l’ego attraverso la notte dei tempi, per le ere e le ere, come un fedele cane pastore. Ma è forse davvero questa la chiave. Quello che alla fine chiamiamo io altro non è che quel cane pastore che mette in ordine, per mezzo di qualche latrato, quel disordinato gruppo di pecore bisognoso di compattarsi per un più corretto procedere.
E in Astrologia?
Bene. Con questo attrezzo, il karma, noi torniamo.
Ogni volta, dal cielo alla terra, metaforicamente, ritorniamo.
L’Anima, Una, con il suo cane pastore, che è il suo occhio e la sua memoria esperienziale e che chiamiamo volgarmente coscienza, ritorniamo.
Ma se veniamo dal cielo, è perché noi stessi siamo cielo, e se pure ne assumiamo i tratti, è della materia delle stelle che siamo fatti, e allora ne conserviamo il carattere, il segno, perché un carattere è un segno, un grafismo, innanzitutto, così come evidentemente, una costellazione celeste (ed il suo omologo segno zodiacale), altro non sono che tratti che uniscono dei puntini luminosi del cielo in un di-segno, in un grafismo, in un carattere, appunto. Quindi, come è giusto e come è facilmente intuibile, ognuno ha il proprio carattere, come pure ogni cosa, come ogni gatto, cane, albero… ma pure come ogni oggetto, casa, muro, pentola, ogni cosa, essendo ogni cosa frutto di un momento e quindi, seme.
(difatti si erigono carte celesti per i momenti, non per chi o cosa in questi momenti nasce, la qual cosa è collaterale. L’Astrologia è l’arte dei momenti, e ogni momento è seme. Per questo esistono carte di nazioni, o in astrologia catarchica si erigono carte per eleggere il momento migliore per una qualsiasi intrapresa…momenti, e segni).
D’altronde, chi bazzica i foschi territori di frontiera della magia operativa o della Qabbalah pratica, come le luminose praterie della divina teurgia, sa bene che ogni intelligenza, ogni angelo così come ogni sua controparte infera, possiede un proprio carattere distintivo, un proprio sigillo che ne suggella le caratteristiche e ne identifica le modalità operative.
L’astrologo invece collega il cielo per mezzo di tratti, di geometrie che connettono una luce a un’altra, riconoscendo in esse dei caratteri che si vengono a sommare l’un l’altro, partecipando a costruire quel gigantesco e magnifico sigillo celeste che è ognuno di noi, e ognuno di quei tratti, per quanto minuscolo ed infinitesimale, ci appartiene in termini di esperienza ed è, per tornare a quel misterioso termine indiano, karma. Quindi karma = esperienza. Che diabolici questi indiani a coniare una parola-concetto così completa ed articolata, viene quasi da invidiarne il vocabolario.
Quello che è il cosiddetto Tema Natale di un individuo, ebbene quella è la mappa del suo karma, il manuale di istruzioni della sua anima, la sua impronta digitale, o impronta animica, e questo manuale di istruzioni è quanto ci è dato e quanto ci serve per questo esatto e specifico giro di giostra (perché se non ci ricordiamo, un motivo ci deve pure essere, non ti pare?). Per questo l’Astrologia è tutta karmica, e lo è in tutte le sue componenti, e per questo è necessario per ognuno di noi di cercare di far fronte al meglio delle nostre capacità, al fine di riuscire a costruire ciò che definiamo di essere su questo esatto e specifico piano spirituale con i mezzi che i nostri arti animici riescono ad apportarci.
Astrologicamente, ogni aspetto planetario, tanto per dirne una, è un karma, ed ogni transito, ogni progressione sono a loro volta esperienze karmiche che attivano costellazioni karmiche. Tutto il nostro intreccio celeste non è altro che karma in azione, o destino intelligente. Sempre e per sempre. (perché il karma è movimento), e il fato stesso può o meglio, deve essere guidato e corretto.
Spesso però ci si riferisce a questo cosiddetto karma in termini che definirei errati se non addirittura svilenti. Il tale ha un bel karma come a dire che è una brava persona, e il talaltro ha un cattivo karma ad intendere che è un farabutto. Questo meccanicismo è volgare e sbagliato. Un cosiddetto karma buono non fa necessariamente la brava persona, così come un karma cosiddetto cattivo, non fa necessariamente il farabutto. Mi spiego e cerco di farlo con un esempio astrologico.
Due consultanti in due diversi momenti mi chiedono un consulto. Io erigo le due carte e vedo che una di esse è un tripudio di trigoni e sestili, di pianeti benefici ben posizionati e dignità essenziali e accidentali a profusione. L’altra, invece, una steppa rinsecchita di quadrature e opposizioni, pianeti mal posizionati e debilitati all’osso. Posso io dire che il primo è una brava persona e il secondo un farabutto? Certo che no, per il semplice fatto che non mi è minimamente dato di sapere, né se il primo non abbia fatto altro, in tutto questo suo passaggio dimensionale, che sedersi sugli allori facendo di sé un fesso, né se il secondo, alle feroci pressioni del suo dolore, di quella dilaniante azione uguale e contraria che si chiama vita, abbia trovato gli strumenti per diventare un vero illuminato. Chi fa seriamente astrologia sa benissimo che quanto sto dicendo è vero. Quante volte abbiamo trovato esseri straordinari al timone di cieli apparentemente disastrosi! Dal letame nascono i fiori.
Ecco allora che questa cattedrale che noi siamo, la costruiamo noi stessi con le nostre mani, con i nostri arti animici.
Ma quali sono gli strumenti per i quali noi possiamo realmente trasformare le nostre tenebre in luce? Ce lo dicono tutte le filosofie e tutte le religioni nessuna esclusa, con una coralità impressionante. I due strumenti per ottenere cielo, sono amore e compassione, perché amore + compassione = verità. Nient’altro. Per questo quando sento quell’assunto spocchioso e superficiale per cui se aiuti qualcuno in difficoltà, in realtà non gli stai rendendo un servizio perché il poveretto dovrebbe sbrogliarsela da solo per ricavare da ciò il dovuto e punitivo insegnamento, provo un forte disappunto. Queste affermazioni, per quanto apparentemente ineccepibili o superficialmente ineccepibili, sono vere e proprie bestemmie animiche. Tutte le culture contemplano il mutuo aiuto, la partecipazione, nessuna esclusa, e gli ebrei hanno la decima e gli arabi il bagshish… altrimenti le civiltà muoiono, la civiltà, muore, il senso dell’umano condividere, muore. Nel pane spezzato siede l’angelo.
Quindi, se è vero che lasciando un essere in difficoltà a sbrogliarsela da solo hai certamente rispettato il suo libero arbitrio, paraculo, hai comunque rinunciato alla possibilità che l’universo ti ha offerto, ti sei amputato della possibilità di potergli tendere la mano, facendo esperienza tu stesso per primo di amore e compassione. Di produrre, di generare, amore, attraverso la compassione, e quindi di produrre e generare verità.
Sono venuto e non mi avete riconosciuto.
Dice Matteo (25-45): «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». È questo è karma, uguale e contrario.
E il comandamento primario, quello per il quale tutti gli altri potrebbero anche essere inutili: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
Non ti aiuteresti tu stesso se fossi in difficoltà? Ebbene, quell’altro che annega sei tu, tendigli la mano, idiota, altrimenti, anneghi, per reazione uguale e contraria. Capitalizza quei trigoni e sestili di modo da ritrovarteli, e partecipa a mantenere questo universo, questo immenso ed eterno organismo, in perfetta salute.
E fallo sviluppando un sentire, non un timore, altrimenti non ti serve a niente.
Ci è stato consegnato un lenzuolo macchiato. È questo il gioco. Cerchiamo di restituirlo pulito.
Siamo qui per lavare, dicono gli Alchimisti.
E per questo che l’universo ci priva delle memorie passate, o karmiche,e ci preclude la vera coscienza, la quale sa benissimo che siamo tutti un solo essere, e parte di un essere ancora più grande come gli atomi e le molecole danno inconsapevolmente vita ad un corpo più grande che le contiene. Così siamo noi. Laddove questo sentire unico si dissocia dall’altro, laddove la coscienza diventa egoica, noi diventiamo tumore, malattia, odio e degenerazione. L’altro sono io, sei tu… se fossimo veramente coscienti di questa verità cristica, quanto bella sarebbe questa esistenza…
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